Così lo smart working evidenzia le disuguaglianze del mondo del lavoro.

 

Quello dello smart working sembra essere un tema lentamente scomparso dal dibattito pubblico, risucchiato in quella dinamica di auspicata nuova normalità che di nuovo al momento ha ben poco.

Nel frattempo però studi e ricerche su questo strumento sono in crescita e ci offrono alcuni elementi di riflessione di cui si tende a tenere poco conto e che invece, in una fase post emergenziale e di tentativo di normalizzazione, andrebbero guardati.

Una recente indagine dell’Ocse cerca di analizzare gli effetti del lavoro da remoto sulle transizioni lavorative, sia quelle tra un lavoro e l’altro che quelle tra disoccupazione, inattività, studio e lavoro. I risultati sono interessanti sotto diversi punti di vista.

Se si guarda alle transizioni tra un lavoro e l’altro, tema caldo che si può legare al dibattito sulla crescita delle dimissioni, emerge come vi sia un rapporto positivo tra la possibilità di lavorare a distanza e il cambiamento di lavoro, principalmente nel medesimo settore.

Si tratta quindi di un elemento di interesse da parte dei lavoratori, oltre che di incentivazione alla mobilità geografica (virtuale) e di un elemento di scambio da parte delle imprese. Allo stesso tempo emerge una correlazione positiva anche nella transizione tra disoccupazione e lavoro, così come tra passaggio tra l’inattività data dal lavoro domestico al lavoro per il quale la possibilità di svolgere la propria prestazione da remoto consentirebbe maggiori livelli di conciliazione con le attività abituali.

Fin qui è possibile cogliere una dinamica generalmente positiva con il lavoro da remoto che può essere uno strumento utile per accrescere i livelli di dinamismo del mercato del lavoro.

Le condizioni di partenza

Ma se andiamo a vedere come questa dinamica si differenzia a seconda della composizione socio-economica degli individui emergono alcuni elementi di criticità. Infatti le correlazioni tra lavoro da remoto e mobilità nel mercato del lavoro sono presenti unicamente per lavoratori con competenze medio alte mentre sono nulli per chi ha competenze basse. La stessa dinamica si ritrova nella transizione tra disoccupazione e lavoro. Come già emerso quindi durante il periodo più complesso della pandemia, il lavoro da remoto genera una forte polarizzazione tra lavoratori che ruota in particolare intorno alle competenze possedute e quindi, anche, intorno al tipo di lavoro svolto.

E qui si ritrova un tema più generale legato alle transizioni lavorative, che il lavoro da remoto non fa che acuire e confermare: la possibilità di transizione è fortemente legata alle condizioni socio-economiche di partenza.

Nel caso specifico, senza le competenze tecniche e la dotazione tecnologica necessaria i lavoratori non possono beneficiare del potenziale positivo legato al lavoro da remoto che potrebbe consentire loro transizioni lavorative in grado di accrescere o il loro salario o quanto meno migliorare alcune condizioni di vita, specialmente connesse alle esigenze di conciliazione.

Questo tema si pone soprattutto per i lavoratori più maturi, con una incidenza inferiore per i giovani, legata proprio al possesso delle competenze necessarie.

Sullo sfondo resta il nodo critico di come consentire e favorire transizioni lavorative che possano contribuire a una miglior allocazione di domanda e offerta di lavoro, innalzando da un lato le condizioni di vita dei lavoratori e, dall’altro, i livelli di efficienza delle imprese che vengono penalizzati dal disallineamento.

Un tema particolarmente urgente in Italia, paese che si posiziona agli ultimi posti nella classifica delle transizioni, con percentuali che sono oltre la metà di quelle dei paesi nord europei e diversi punti sotto la media Ocse. La digitalizzazione dei processi produttivi, lavoro da remoto incluso, può contribuire a un miglioramento di questi livelli ma rischia di creare una ancora più grande polarizzazione peggiorando le condizioni per chi si trova nella fascia più bassa, riducendone ancor di più le possibilità. La stessa dinamica delle dimissioni di cui tanto si discute rischia di essere la descrizione di un beneficio per chi può permetterselo. L’urgenza deve essere quindi quella di rendere effettivo e operativo un vero diritto alla formazione per tutti i lavoratori che sia preludio di un diritto alla transizione che solo può attuarsi a partire da competenze (digitali ma non solo) adeguate oltre che da una conoscenza e da strumenti di accompagnamento nel mercato del lavoro. Di questa riduzione delle disuguaglianze ne beneficerebbero tutti.

FRANCESCO SEGHEZZI