Risarcimento del danno morale al dipendente whistleblower.

Il Tribunale di Bergamo, con la sentenza n. 951 del 6 novembre 2025, si è occupato del caso di una dipendente che nel 2019 aveva presentato una prima denuncia whistleblowing ex art. 54 d.lgs. n.165/2001 (articolo oggi abrogato e sostituito dal d.lgs. n. 24/2023) per irregolarità commesse dai propri responsabili e ulteriore successiva denuncia sempre per whistleblowing perché la sua identità di autrice della segnalazione era stata rilevata e resa pubblica all’interno dell’Ente di appartenenza.

Successivamente, la lavoratrice cominciava a subire anche vessazioni da parte dei colleghi e dei propri superiori, spostamenti di sede e quindi era vittima di una serie di infondati e strumentali procedimenti disciplinari.

Ancora, la dipendente veniva demansionata, venendo addetta a semplici mansioni di natura meramente esecutiva e quindi isolata, venendo continuamente e pubblicamente denigrata dai propri superiori in ragione della presentazione delle segnalazioni.

Il Tribunale accertava in primo luogo la nullità di tutti i provvedimenti sfavorevoli adottati dall’Ente nei confronti della lavoratrice in quanto ritorsivi, essendo stati adottati a seguito ed in ragione delle sue segnalazioni come whistleblower.

Quanto alle domande di risarcimento del danno formulate dalla dipendente, l’art. 2087 c.c. prevede la responsabilità del datore di lavoro che colposamente ha consentito il manifestarsi di un ambiente di lavoro nocivo ed ostile, fonte di stress e logorio fisico e mentale.

Tuttavia, con riferimento all’individuazione del danno subito dalla lavoratrice, la CTU esperita in giudizio ha escluso la sussistenza di un danno biologico alla salute per effetto delle condotte illecite subite dalla dipendente sul luogo di lavoro, non ravvisando il consulente d’ufficio alcuna patologia o problematica sanitaria correlata al disagio lavorativo.

Escluso il danno biologico sub specie di danno alla salute, viene invece riconosciuto il danno morale (paura, disistima di sé, vergogna, disperazione) quale intensa sofferenza soggettiva provata dalla lavoratrice in conseguenza delle condotte della datrice di lavoro ed in particolare adottate da parte dei colleghi e superiori.

È emersa ed è stata provata in giudizio infatti la penosità del luogo di lavoro, nonché il senso di malessere, isolamento ed emarginazione e umiliazione provato dalla lavoratrice nella consapevolezza di dover lavorare in tale ambito.

La quantificazione del danno, in via equitativa, tiene conto del demansionamento subito per circa tre anni, quantificato in una somma pari a circa il 20% della retribuzione sia delle ulteriori sofferenze morali conseguenti alle condotte vessatorie, per un totale pari a 25.000,00 euro.

avv. Alberto Tarlao

Segretario Regionale CIU Unionquadri

Friuli-Venezia Giulia